Recentemente la Cassazione (Cass. 30 ottobre 2018, n. 27705) ha chiarito come sia onere del cliente -che voglia negare la natura solutoria delle rimesse su conto scoperto invocate per far valere l’eccezione di prescrizione nei rapporti di conto corrente- provare l’esistenza di un’apertura di credito, non essendo sufficiente l’esistenza di elementi che facciano pensare a un fido di fatto. Si precisa nella sentenza che, nel caso oggetto di causa, il cliente non aveva assolto all'onere della prova di dimostrare l’esistenza di un affidamento, ma si era limitato a dedurre che dagli estratti risultava indirettamente un tale affidamento.
Cass. 30 ottobre 2018, n. 27705 precisa che “eccepita dalla banca la prescrizione del diritto alla ripetizione dell'indebito per decorso del termine decennale dalle annotazioni passive in conto […]se, a questo punto, il tempo decorso dalle annotazioni passive integri il periodo necessario per il decorso della prescrizione, diviene onere del cliente provare il fatto modificativo, consistente nell'esistenza di un contratto di apertura di credito, che qualifichi quei versamenti come mero ripristino della disponibilità accordata e, dunque, possa spostare l'inizio del decorso della prescrizione alla chiusura del conto. Apertura di credito che non è di per sè, come è noto, un contratto necessariamente riconnesso a quello di conto corrente”.
La sentenza, però, non chiarisce se l'onere della prova dell’affidamento che grava sul cliente consista nella prova del contratto o sia sufficiente la prova del fatto storico che vi fosse un fido (appunto fido di fatto).
La sentenza che qui si segnala della Corte d'Appello di Venezia, prende posizione sulla questione e conferma tale orientamento per il quale l'onere della prova è del cliente. Tale soggetto, al fine di contestare la natura solutoria delle rimesse intervenute su conto passivo, rilevante per l’eccezione di prescrizione nei rapporti di conto corrente, ha dunque l'onere di dimostrare l’esistenza di un affidamento.
Corte d'Appello di Venezia 19 giugno 2019 n. 2555, relatore dott. Valle sembra però aggiungere altro: “con il quarto motivo la curatela fallimentare lamenta l’errore in cui è a suo dire incorso il primo giudice nel dichiarare prescritto il diritto di ripetere i pagamenti indebiti eseguiti sul [conto corrente] anteriormente al 25.3.2000. Sostiene che sui conti correnti operavano svariate linee di credito, ciò desumendosi dalle risultanze degli estratti conto; contesta che per provare l’esistenza dell’apertura di credito sia necessario apposito contratto scritto; deduce la concessione da parte della Banca di c.d. fido di fatto. Il motivo è infondato.
L’appellante non contesta il rilievo, su cui il tribunale ha fondato la propria decisione, che i contratti di conto corrente non contengono una compiuta disciplina delle pretese aperture di credito e delle condizioni economiche che le avrebbero regolate, siccome invece prescritto – per la validità del contratto, e non solamente a fini probatori – dall’art. 117, comma 1, TUB. Il requisito formale impedisce di accordare rilevanza ad affidamenti di fatto”.
Dunque, tale decisione della Corte d’Appello considera irrilevante la deduzione di elementi di prova astrattamente idonei a dimostrare l’esistenza di un fido di prova: per la sentenza qui in commento, l'onere della prova che grava sul cliente è quella di provare l’esistenza dell’affidamento, che peraltro deve avere necessariamente forma scritta.
di Marco Ticozzi
avvocato a Mestre Venezia Treviso e Vicenza