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Affidamento congiunto e condiviso: differenze, regole e ultime sentenze

17 ottobre 2025

Cosa si intende per affidamento congiunto o affidamento condiviso e quali sono le differenze tra le due formule? Dopo la separazione o il divorzio, la regola nel diritto di famiglia italiano è l’affido condiviso, che garantisce a entrambi i genitori la responsabilità comune nella crescita dei figli. Ma condiviso non significa sempre paritario: non è detto, infatti, che il minore trascorra lo stesso tempo con ciascun genitore. L’obiettivo della legge resta quello di tutelare il benessere del bambino attraverso una bigenitorialità effettiva, anche se concretamente declinata in modi diversi. Le ultime sentenze della Cassazione del 2025 hanno ribadito che conta la qualità, non la quantità del tempo trascorso insieme.

Affidamento congiunto e condiviso

Affidamento congiunto e condiviso: cosa significano davvero

Quando una coppia con figli decide di separarsi, una delle questioni più complesse da affrontare riguarda la gestione della genitorialità dopo la fine della convivenza. Il termine “affidamento congiunto” è stato per molti anni utilizzato per indicare la possibilità che entrambi i genitori continuassero ad esercitare insieme la responsabilità verso i figli, anche se non vivevano più sotto lo stesso tetto. Oggi, però, la legge e la prassi giudiziaria parlano sempre più spesso di affidamento condiviso, che rappresenta una forma evoluta del concetto di “congiunto”, fondata sull’idea che madre e padre rimangano ugualmente coinvolti nella vita dei figli.

Il significato giuridico di queste espressioni non è soltanto linguistico: riguarda la sostanza del rapporto genitore–figlio dopo la separazione. Parlare di “affidamento” significa infatti occuparsi di chi ha il diritto e il dovere di prendere le decisioni più importanti per il minore — istruzione, salute, educazione, crescita — mentre il termine “collocamento” riguarda l’abitazione prevalente del bambino. Non sempre i due concetti coincidono: si può avere affidamento condiviso ma collocamento prevalente presso un solo genitore.

In pratica, l’affidamento congiunto o condiviso mira a garantire la cosiddetta bigenitorialità, cioè il diritto del minore a mantenere un legame stabile, continuativo e affettivo con entrambi i genitori. È un principio che riflette un cambiamento culturale profondo: il figlio non “appartiene” a un genitore più dell’altro, e la separazione non deve interrompere la sua possibilità di crescere con due figure di riferimento. Questa impostazione, oggi, è la regola nelle cause di separazione e divorzio, salvo casi particolari in cui l’interesse del minore renda necessario un affidamento esclusivo.

Dal vecchio affido congiunto all’affidamento condiviso: l’evoluzione normativa

L’attuale sistema dell’affidamento dei figli trova il suo punto di svolta nella legge n. 54 del 2006, che ha introdotto il concetto di affido condiviso come modello ordinario di riferimento. Prima di questa riforma, il cosiddetto “affidamento congiunto” era previsto, ma in modo eccezionale: nella maggior parte dei casi, il giudice disponeva l’affidamento esclusivo a uno dei genitori, ritenendo che la conflittualità della coppia o la mancanza di dialogo rendessero impossibile una gestione comune.

La legge del 2006 ha ribaltato questa impostazione, partendo da un presupposto opposto: i figli hanno diritto ad avere due genitori attivi, anche se separati. Di conseguenza, il giudice deve oggi privilegiare l’affidamento condiviso, e solo in presenza di gravi motivi può disporre quello esclusivo. Questa evoluzione ha coinciso con il passaggio da un concetto di “potestà genitoriale” a quello di “responsabilità genitoriale”: non si tratta più di un potere da esercitare, ma di un dovere da condividere nell’interesse del minore.

In termini pratici, la riforma ha reso più equilibrato il rapporto genitoriale dopo la separazione. Tuttavia, non ha eliminato del tutto le difficoltà applicative: la gestione quotidiana dei figli continua a richiedere decisioni concordate e capacità di comunicazione, che non sempre sono presenti nelle coppie in crisi. È in questo contesto che la giurisprudenza, negli anni, ha cercato di tracciare linee guida, passando da schemi rigidi a soluzioni sempre più personalizzate. L’idea di fondo resta quella di evitare modelli “standardizzati”, puntando su un affido realmente costruito su misura del minore e della sua famiglia.

Le regole dell’affidamento e la centralità dell’interesse del minore

Il cuore di ogni decisione in materia di affidamento, sia congiunto che condiviso, è l’articolo 337-ter del codice civile, che pone al centro il principio dell’“interesse morale e materiale del minore”. È un concetto ampio, che lascia al giudice un margine di valutazione molto flessibile, proprio perché ogni famiglia ha una storia diversa. La norma prevede che il giudice determini i tempi e le modalità della presenza del figlio presso ciascun genitore, fissando anche il contributo economico per il suo mantenimento, ma sempre partendo da ciò che è meglio per il bambino.

In concreto, il giudice analizza diversi fattori: la capacità genitoriale, la disponibilità di tempo, la stabilità abitativa, l’età del minore e il suo grado di maturità. Se il figlio ha compiuto 12 anni (o anche meno, se è capace di discernimento), deve essere ascoltato prima di prendere qualsiasi decisione che lo riguardi. La sua opinione non è vincolante, ma contribuisce a orientare la decisione. L’ascolto del minore è oggi considerato una garanzia di rispetto dei suoi diritti, tanto da rendere impugnabile la sentenza se viene omesso senza motivo.

Ciò che spesso sfugge a chi vive una separazione è che l’interesse del minore non coincide con quello del genitore. Non basta volere più tempo con i figli: bisogna dimostrare che quella presenza è utile per la loro serenità, per la continuità scolastica, per le relazioni sociali e familiari. È per questo che i tribunali, pur partendo dal principio dell’affidamento condiviso, cercano di calibrare tempi e modalità sulla base della realtà concreta, evitando soluzioni teoriche o meramente “simmetriche”. La quantità di tempo, da sola, non garantisce la qualità del legame: un equilibrio difficile, ma necessario, che la giurisprudenza continua a interpretare caso per caso.

Differenze tra affido condiviso e congiunto nella pratica giudiziaria

Molti genitori, ancora oggi, si chiedono se esista una reale differenza tra affido congiunto e affido condiviso. Dal punto di vista tecnico, come visto, il termine corretto oggi è affidamento condiviso, ma nella pratica le due espressioni vengono spesso usate come sinonimi, soprattutto nel linguaggio comune o in sentenze antecedenti al 2006. Tuttavia, dietro questa apparente somiglianza, esistono sfumature importanti che vale la pena chiarire. Con l’affidamento congiunto, nel sistema precedente alla riforma del 2006, entrambi i genitori esercitavano insieme la potestà genitoriale, ma solo se mantenevano un rapporto di piena collaborazione e convivenza armoniosa nella gestione dei figli. Era quindi un modello “ideale”, raramente applicato, e riservato alle coppie che riuscivano a separarsi in modo sereno e costruttivo. L’affidamento condiviso, invece, nasce da un presupposto diverso: non serve che i genitori vadano d’accordo su tutto, ma che siano entrambi in grado di esercitare la responsabilità genitoriale, anche separatamente, nell’interesse del minore. Questo significa che, anche in presenza di un certo livello di conflitto, il giudice tende comunque a disporre l’affido condiviso, a meno che il disaccordo non si traduca in comportamenti dannosi per il figlio (come denigrazioni, violenze o condotte ostative). La regola, quindi, non è più la collaborazione perfetta, ma la capacità di garantire, ciascuno nel proprio ruolo, la continuità affettiva ed educativa del minore. In sostanza, l’affidamento condiviso è oggi il modello ordinario; quello esclusivo resta l’eccezione. Nella prassi dei tribunali, ciò comporta una maggiore responsabilità per entrambi i genitori, chiamati a cooperare anche quando i rapporti personali non sono facili, perché il diritto del figlio a due genitori prevale sul conflitto della coppia.

Il principio di bigenitorialità e la gestione delle decisioni quotidiane

Al centro del sistema dell’affidamento condiviso c’è il principio di bigenitorialità, riconosciuto come diritto fondamentale del minore. Significa che ogni bambino ha diritto a ricevere affetto, cura, educazione e sostegno da entrambi i genitori, anche se questi vivono separati. Non si tratta di un equilibrio “matematico” di tempo, ma di una partecipazione effettiva di entrambi alla crescita del figlio.

Il principio di bigenitorialità comporta che le decisioni di maggiore importanza (scelta della scuola, interventi sanitari, indirizzo religioso, attività sportive o formative) vengano prese di comune accordo tra i genitori. Tuttavia, la legge distingue tra decisioni “straordinarie” e “ordinarie”: per le prime serve il consenso di entrambi, per le seconde ciascun genitore può agire autonomamente durante i periodi di affidamento o collocamento del figlio presso di sé. Se, ad esempio, un genitore deve affrontare un’urgenza sanitaria o una scelta quotidiana come la gestione dei compiti o delle amicizie, può decidere in autonomia; se invece si tratta di cambiare scuola o affrontare una terapia specialistica, la decisione deve essere condivisa.

La giurisprudenza ha chiarito che la conflittualità non è di per sé ostativa all’affido condiviso. Conta piuttosto la capacità dei genitori di mantenere una linea educativa coerente, anche se con opinioni diverse. Quando invece il disaccordo è tale da compromettere la serenità del minore o la continuità educativa, il giudice può valutare l’affidamento esclusivo, motivandolo in modo specifico. In sintesi, la bigenitorialità non richiede genitori perfetti, ma genitori presenti, coerenti e capaci di anteporre l’interesse dei figli alle proprie incomprensioni.

Tempo di qualità e quantità nei rapporti genitore-figlio: la Cassazione 2025

La recente ordinanza della Cassazione civile, sez. I, n. 25421 del 16 settembre 2025, ha riportato al centro del dibattito un tema molto delicato: il rapporto tra la “quantità” e la “qualità” del tempo che un figlio trascorre con ciascun genitore. Nel caso esaminato, il padre, non collocatario in via prevalente, contestava che la Corte d’Appello di Milano avesse ridotto i suoi tempi di frequentazione con il figlio, pur riconoscendo in motivazione l’importanza di un rapporto più ampio. La Cassazione ha però ritenuto infondate le doglianze, sottolineando che la decisione del giudice territoriale non era fondata sulla quantità di ore o giorni, ma sulla qualità del tempo trascorso insieme. Secondo la Suprema Corte, il diritto del minore a una bigenitorialità effettiva non si misura in giorni o percentuali, ma nella possibilità di vivere esperienze significative con entrambi i genitori. Per questo motivo, il giudice può privilegiare un calendario “di qualità” — con tempi più concentrati ma più pieni di relazione — rispetto a una distribuzione aritmeticamente equilibrata ma poco funzionale alla vita quotidiana del bambino. Un approccio, questo, che invita a valutare le reali esigenze del minore, la distanza geografica tra le abitazioni dei genitori, gli impegni lavorativi e l’età del figlio. La pronuncia ha suscitato un ampio dibattito: da un lato, valorizza l’adattabilità delle decisioni familiari alle situazioni concrete; dall’altro, secondo alcuni interpreti, rischia di ridurre la presenza del genitore non collocatario a un tempo “simbolico”. Ciò che emerge, in ogni caso, è la necessità di un approccio personalizzato, lontano da schemi rigidi, dove il giudice deve costruire soluzioni su misura e i genitori sono chiamati a collaborare per rendere davvero efficace il principio di bigenitorialità.

Affidamento condiviso e paritario: quale differenza

Negli ultimi anni si parla spesso di affido paritario, espressione che ha guadagnato popolarità anche nei tribunali e nel linguaggio dei genitori separati. Ma che cosa significa realmente? In senso tecnico, l’affido paritario non è una categoria giuridica autonoma rispetto all’affido condiviso. È, piuttosto, una modalità concreta di applicazione di quest’ultimo, nella quale i tempi di permanenza del figlio vengono suddivisi in modo sostanzialmente uguale tra i due genitori. In altre parole, si parla di affido paritario quando il minore trascorre periodi equivalenti – o comunque molto vicini – con la madre e con il padre.

È importante però distinguere con chiarezza: affido condiviso non significa automaticamente affido paritario. Il principio di legge (art. 337-ter c.c.) impone al giudice di garantire la bigenitorialità e la partecipazione di entrambi i genitori alle decisioni, ma lascia ampia libertà nel definire tempi e modalità. Per questo, nella maggior parte dei casi, l’affido condiviso si traduce in una distribuzione asimmetrica del tempo (ad esempio 60–40 o 70–30), calibrata sulle esigenze del minore, sull’età, sugli orari scolastici e sulla distanza tra le abitazioni.

La Cassazione civile n. 25421/2025 ha ribadito proprio questo concetto, precisando che non esiste un diritto “numerico” al 50% del tempo, ma un diritto del minore a trascorrere tempo di qualità con ciascun genitore. L’affido paritario può rappresentare una buona soluzione solo quando vi sono condizioni logistiche compatibili: abitazioni vicine, ritmi di lavoro conciliabili e buona capacità di cooperazione. In assenza di questi elementi, una rigida parità può rivelarsi più dannosa che utile, costringendo il bambino a spostamenti continui o a una vita disorganizzata.

In sintesi, l’affido paritario è una possibilità, non un diritto automatico. L’obiettivo resta sempre lo stesso: garantire che il figlio mantenga un legame stabile, sereno e realmente significativo con entrambi i genitori, anche se in tempi diversi.

Affidamento condiviso e mantenimento: come si calcola il contributo economico

Uno degli aspetti più delicati che accompagnano l’affido condiviso è quello economico. La separazione, infatti, non estingue i doveri di mantenimento dei figli: entrambi i genitori restano obbligati a contribuire alle spese per la crescita, l’educazione, la salute e le esigenze di vita quotidiana dei minori. Tuttavia, la legge non stabilisce un criterio fisso per determinare l’importo, lasciando al giudice un ampio margine di valutazione in base alla situazione concreta.

Nel regime di affidamento condiviso, il principio è che ciascun genitore contribuisce in proporzione alle proprie risorse economiche e al tempo di permanenza del figlio presso di sé. Se uno dei due dispone di un reddito più alto, o trascorre meno tempo con il minore, sarà tenuto a versare un assegno di mantenimento all’altro, in modo da garantire al figlio un tenore di vita il più possibile simile a quello precedente alla separazione. Questo meccanismo mira a evitare che la separazione crei squilibri tra le due case: il bambino deve poter trovare in entrambe le abitazioni un ambiente dignitoso e coerente con le sue abitudini di vita.

L’assegno di mantenimento copre le spese ordinarie, cioè quelle quotidiane e prevedibili (vitto, abbigliamento, scuola, attività di base). Le spese straordinarie – mediche, scolastiche particolari, sportive, universitarie – vengono di norma suddivise al 50% tra i genitori, salvo diverso accordo. In presenza di figli maggiorenni non autosufficienti, l’obbligo prosegue fino a quando questi non abbiano raggiunto una reale indipendenza economica. In caso di disoccupazione o reddito minimo, il genitore può chiedere una revisione dell’importo, ma solo se dimostra un cambiamento oggettivo e non volontario della propria condizione. La logica di fondo è chiara: il mantenimento non è un “diritto del genitore”, ma un diritto del figlio, e ogni decisione deve ruotare attorno al suo interesse primario.

Quando il giudice dispone l’affidamento esclusivo e come si può chiedere la modifica

Nonostante l’affidamento condiviso rappresenti oggi la regola generale, in alcuni casi il giudice può decidere di disporre l’affidamento esclusivo a uno dei genitori. Si tratta però di una soluzione residuale, ammessa solo quando la partecipazione di uno dei due si riveli concretamente pregiudizievole per il figlio o renda impossibile l’esercizio della responsabilità genitoriale condivisa. L’articolo 337-quater del codice civile prevede che l’affidamento esclusivo possa essere disposto “qualora l’affidamento all’altro genitore risulti contrario all’interesse del minore”. Tra le situazioni che più frequentemente portano a tale decisione vi sono la violenza domestica, la dipendenza da sostanze, i gravi disturbi psichici o comportamentali, o ancora l’atteggiamento di totale disinteresse verso il figlio. Ma anche un’elevata conflittualità, se sfocia in comportamenti che danneggiano il minore, può costituire motivo sufficiente per limitare la responsabilità di un genitore. Va ricordato però che l’affidamento esclusivo non implica automaticamente la perdita del diritto di visita o di relazione: il giudice può infatti stabilire incontri protetti o modalità controllate, per tutelare il rapporto genitore-figlio in condizioni di sicurezza.

La decisione sull’affidamento non è immutabile. In caso di cambiamento delle circostanze, ciascun genitore può chiedere una modifica delle condizioni rivolgendosi al tribunale competente. Ad esempio, se un genitore migliora la propria situazione economica o psicologica, o se il livello di collaborazione aumenta, è possibile domandare il ripristino dell’affidamento condiviso. In questi casi, il ruolo dell’avvocato è determinante: serve valutare la documentazione utile, predisporre l’istanza corretta e dimostrare che la modifica richiesta corrisponde all’interesse del minore, non solo a quello personale del genitore.

Conclusioni sull’affido congiunto

L’esperienza giudiziaria e le evoluzioni normative degli ultimi anni hanno chiarito che l’affidamento condiviso non è soltanto una formula giuridica, ma un vero e proprio modello educativo e relazionale. Ogni figlio ha diritto a mantenere un legame autentico con entrambi i genitori, anche quando la coppia si scioglie. La sfida, per il diritto di famiglia, è tradurre questo principio in soluzioni concrete, calibrate sulla realtà di ciascuna famiglia, sulle distanze geografiche, sugli orari di lavoro e sull’età dei bambini.

La recente giurisprudenza, come la Cassazione civile n. 25421/2025, ha ribadito che il valore del tempo genitoriale non si misura solo in quantità ma soprattutto in qualità, richiedendo scelte personalizzate e ragionate. Tuttavia, come spesso accade nelle relazioni familiari, non esistono modelli validi per tutti: l’equilibrio si costruisce nel tempo, con collaborazione e rispetto reciproco. Per questo, in ogni fase di separazione o modifica dell’affidamento, è fondamentale rivolgersi a un avvocato esperto in diritto di famiglia, capace di orientare le scelte e tutelare davvero il benessere del minore.

Articolo redatto da Avv. Prof. Marco Ticozzi – Studio Legale a Padova, Mestre Venezia e Treviso.

FAQ sull’affidamento condiviso

1. Qual è la differenza tra affidamento congiunto e affidamento condiviso?

Oggi la legge parla di affidamento condiviso, che è il modello ordinario. Il termine congiunto era usato prima della riforma del 2006 e oggi sopravvive solo nel linguaggio comune come sinonimo.

2. Il giudice può disporre l’affidamento condiviso anche se i genitori litigano spesso?

Sì. La conflittualità non basta a escluderlo, a meno che non comprometta la serenità del minore o renda impossibile una gestione coerente delle decisioni.

3. In caso di affidamento condiviso, il figlio deve vivere metà del tempo con ciascun genitore?

No. Il tempo può essere distribuito in modo diverso: ciò che conta non è la quantità aritmetica, ma la qualità e la stabilità dei rapporti.

4. Come viene stabilito l’assegno di mantenimento nel regime di affido condiviso?

Il giudice lo calcola in base ai redditi dei genitori, ai tempi di permanenza del minore e alle sue esigenze. L’obiettivo è mantenere il tenore di vita preesistente.

5. È possibile modificare le condizioni dell’affidamento dopo la separazione?

Sì. Se cambiano le circostanze (nuovo lavoro, trasferimento, miglioramento delle condizioni di vita), ciascun genitore può chiedere la revisione delle modalità di affido.

6. L’affidamento esclusivo toglie i diritti al genitore non affidatario?

No. Salvo casi gravi, il genitore mantiene il diritto di visita e di partecipazione alla vita del figlio, seppur con modalità stabilite dal giudice.

7. L’affido condiviso si applica anche alle coppie di fatto?

Sì. Le stesse regole valgono anche per i figli nati fuori dal matrimonio, perché ciò che conta è la tutela del minore, non lo stato civile dei genitori.

Marco Ticozzi Avvocato Venezia

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